UIL C.A. – SEGRETERIA PROVINCIALE DI LECCE

 

Mobbing: un fenomeno da debellare

Convegno Nazionale UIL CA

Hotel Hermitage – Galatina (le)

16 giugno 2000

 

 

 

 

Intervento di Franco Lotito

Segretario Confederale UIL Nazionale

 

I

l compito di questo intervento è quello di individuare i connotati politici e sociali del problema del mobbing, così come prima di me sono stati individuati (ed egregiamente indagati), i connotati giuridici, legislativi e scientifici del problema.

In premessa vorrei rivendicare alla mia organizzazione il merito di aver contribuito non poco a creare, attorno al fenomeno del mobbing, quell’attenzione che indubbiamente ancora un anno, un anno e mezzo fa, non aveva. Non siamo certo stati noi a determinare la decisione della RAI nel mandare in onda le trasmissioni che poi ha fatto (LAF di Taranto ecc…), e tuttavia penso che le nostre dodici iniziative a carattere regionale e nazionale abbiano contribuito non poco alla necessaria conoscenza dell’ampiezza del fenomeno. Conoscerlo, dunque, è importante, ma ancora più importante è indagarne le cause, individuarne le radici, e su queste agire collettivamente.

Innanzitutto va chiarito un punto. Il mobbing – dal punto di vista sociale – è un fenomeno che si manifesta e si sviluppa laddove hanno successo le strategie di isolamento delle persone.

Lavoratori soli davanti ai loro problemi; spinti a litigare, ma non a lottare. Soli anche quando vivono una comune condizione di discriminazione: prendete il caso dei lavoratori isolati nella palazzina LAF.

Giorno dopo giorno, costretti a frequentare un luogo di lavoro dove non c’è nulla da fare; un’esistenza priva di senso, alla quale viene tolta – giorno dopo giorno – la dignità: Questa è la palazzina LAF, che a buon diritto potrebbe essere rinominata “palazzina MOBBING”.

Ebbene di fronte a questa aberrazione il nostro compito non deve essere quello di aiutare i lavoratori della palazzina LAF a convivere con lo stress del mobbing. No, il nostro compito deve essere quello di eliminare la palazzina LAF! Se non ci è chiaro questo punto non c’è azione politica, nè possibilità di intervento. Ed allora ecco il secondo punto.

Il problema del mobbing attiene solo marginalmente, al problema della riduzione dei costi aziendali. In questo senso sarebbe un errore fare confusione tra i processi di ristrutturazione aziendale (questi sì funzionali al taglio dei costi) e il mobbing. Certo è evidente la concomitanza ricorrente tra i due aspetti, sono convinto tuttavia che il problema del mobbing attenga molto più propriamente alle strategie di dominio della forza lavoro. Questo mi sembra il punto vero; quello che va considerato il cuore politico del problema. E c’è da essere sicuri che, man mano che noi ci avvicineremo a questo cuore, la reazione delle controparti imprenditoriali salirà di tono e di asprezza. Provate ad immaginare quale sarebbe la reazione di Riva se FIM, FIOM e UILM di Taranto chiedessero la cosa più semplice: l’eliminazione della palazzina LAF.

Se decideremo di seguire questa strada, ne vedremo delle belle e del resto qualche segno già si vede sulla stampa. Penso a quello che ci ha detto Pedio quando riferiva dei commenti dedicati da un giornale al problema del mobbing: una malattia da coktail-party, così è stata definita!

Sappiamo che la Confindustria si sta muovendo, per dimostrare che il problema del mobbing non esiste o, se esiste, lo è soltanto nella sfera della psicanalisi. Ora è chiaro che esiste una dimensione individualistica e dunque un aspetto del problema che riguarda da vicino la psicanalisi, al punto che noi per primi ci ripromettiamo di allestire i centri di ascolto per i mobbizzati. Tuttavia si badi bene che così dicendo, le intenzioni della Confindustria non sono quelle di riconoscere l’esistenza del problema; semmai – al contrario – si propone di negargli ogni rilevanza sociale. Ma conviene che torni al punto principale del mio ragionamento.

Le radici del fenomeno stanno nel fatto che le nuove regole del capitalismo così come si evolvono, cercano di introdurre nuovi principi di regolazione dei rapporti sociali e delle relazioni sociali.

Vedete le relazioni sociali rispondono a due fattori fondamentali: gli interessi ed i sentimenti.

La regolazione delle relazioni sociali basate sugli interessi avviene di norma sulla base dei rapporti contrattuali.

Le relazioni basate sui sentimenti avvengono, invece, sulla base di rapporti squisitamente umani.

Nel primo caso il conflitto si svolge prevalentemente in forma collettiva e si risolve, di norma, con un compromesso.

Nel secondo caso invece in conflitto si svolge tra individui ed in genere si risolve con la sconfitta dell’uno o dell’altro.

Cos’è la condizione di mobbing se non il trasferimento del conflitto dalla forma collettiva; alla forma individuale? Come dire che nelle condizioni di mobbing il conflitto non è più di carattere verticale e cioè fra la struttura di potere aziendale ed i lavoratori, ma si “orizzontalizza”, nel senso che investe la sfera dei rapporti fra dipendente e dipendente.

Accade così un fatto bizzarro. Nel momento in cui la direzione aziendale – tanto per fare un esempio – decide di tagliare un certo numero di posti di lavoro, si sottrae al conflitto lasciando sul campo i lavoratori nella forma di contendenti, ai quali non rimane altro che lottare l’uno contro l’altro per assicurarsi quello che rimane. E’ quella che potremmo chiamare la regola del gladiatore. C’è una sola scrivania mentre ci sono due, tre persone che vengono messe in competizione per sedervisi. Per me il punto non è come regolare quella competizione. Il punto vero è: ma chi ha deciso che la scrivania debba essere una? E perché?

Ora ci vuol poco a capire che quando i lavoratori sono impegnati individualmente a confliggere tra di loro, passa loro ogni voglia di unirsi per confliggere contro le decisioni dell’impresa. In questo modo si sviluppa una tecnica di controllo della forza lavoro molto più sottile in cui non c’è bisogno neanche di capi e capetti.

Al fondo di questa scelta c’è un modello, un modo di concepire non solo i rapporti di produzione ma anche i rapporti sociali. Laddove cioè noi possiamo ragionevolmente ritenere giusto, batterci per affermare che lo sviluppo e la crescita debbono avere alla loro base il principio della solidarietà e dell’equità, questo modo di concepire i rapporti sociali ed i rapporti di produzione cambiano questo parametro e dicono: per la crescita occorre lo scontro, si cresce se si scontrano le persone, se si scontrano le forze, se dunque avviene un conflitto distruttivo, perché qualcuno, in questo conflitto, deve soccombere.

Ci piaccia o no, è questa la vera natura che si cela in gran parte dei processi di ristrutturazione che sono in atto nei settori del terziario. Processi di ristrutturazione aziendale che per lo più nascono non da esigenze di risanamento, ma da una precisa volontà di potenza e di potere.

Si officiano i riti della globalizzazione; ma spesso dietro i paramenti sacri del mercato,si celano soltanto la meschinità di obiettivi di potere: di una parte del management contro quell’altra; di una cordata economico-finanziaria contro quell’altra, o magari la voglia di sbarazzarsi di ogni forma di controllo sociale e sindacale sull’uso della forza-lavoro.

A volte mi viene il dubbio che le nostre categorie di analisi della realtà siano diventate troppo astratte e comunque decisamente subalterne a modelli culturali esterni agli interessi concreti del mondo del lavoro che noi dobbiamo rappresentare, e questo ci porta fuori strada.

Penso ad esempio che se noi non riconquisteremo fino in fondo la capacità di controllare o di riconoscere quanto meno la natura dei processi di ristrutturazione, difficilmente potremo contrapporci efficacemente agli effetti mobbizzanti che ne derivano. Ma per conoscere i processi di ristrutturazione a nostra volta dobbiamo avere la capacità di riqualificare gli stessi strumenti che abbiamo sopra i luoghi di lavoro.

Sapete quanti sono i delegati aziendali che CGIL CISL UIL hanno in tutti quanti i luoghi di lavoro? 63.000 persone. 63.000 delegati aziendali.

Domanda: che fanno? Difficile dirlo; non fanno contrattazione, non si occupano dell’organizzazione del lavoro, non gestiscono informazioni aziendali e chissà quante altre cose “non” fanno. A volte penso che i primi mobbizzati siano loro, perché non gli facciamo fare niente.

Preferiamo tenerli un po’ chiusi nei loro uffici, dove c’è scritto, sopra le targhette CGIL, CISL, UIL, stanno là, tranquilli. L’unico compito che affidiamo loro è quello di essere i misuratori della forza numerica del sindacato.

Ma si possono avere 63.00 delegati svolgere soltanto questa funzione?

Io penso che il compito del sindacato, sui luoghi di lavoro, debba essere innanzitutto quello di riconquistare fino in fondo la conoscenza e la consapevolezza dei processi produttivi e dei processi lavorativi. Solo così capiremo per quale ragione è stata messa una scrivania anziché due o tre. Ma questo significa riacquistare una capacità di lettura soggettiva da parte dei lavoratori e del sindacato delle questioni che attengono all’organizzazione produttiva. Chiarendo- ad esempio – che il rifiuto delle tecniche mobbizzanti nasce dalla convinzione che si tratta di modelli di potere che tendono, non alla valorizzazione, bensì alla distruzione del capitale lavoro proprio perché si fondano su un conflitto distruttivo.

Il mobbing è la punta di un iceberg: quello che vediamo è molto spesso il dramma umano. Ma sotto c’è ben altro; c’è la distruzione del lavoro del capitale umano. E questo è un delitto anche sul piano economico.

Se vogliamo affrontare con successo la lotta contro il mobbing, dobbiamo avere il coraggio di ribaltare il piano dei valori che ci viene proposto.

Nessuno di noi nega i vincoli che derivano al nostro sistema economico e produttivo che derivano dalla globalizzazione, ma non sta scritto da nessuna parte che l’unico modo possibile per parteciparvi sia quello che ci viene propinato dalle culture dominanti.

E’ nostro dovere osare un’alternativa sul piano culturale, affermando che è possibile (e persino necessario) mettere al centro dei processi economici e produttivi il valore – anzi – la valorizzazione del lavoro umano.

Viviamo nell’era dell’informazione e nella società delle libertà. I media si moltiplicano ogni giorno di più e si affollano intorno a noi per catturare la nostra attenzione. A volte però mi chiedo se la sovrabbondanza dei mezzi disponibili ci renda effettivamente liberi di scegliere. Il parametro di scelta non è più tra ciò che è “giusto” e ciò che “non è giusto”. Ora sembra affermarsi un nuovo parametro - tutto americano – che ci invita a scegliere tra ciò che “è politicamente corretto e ciò che “non è politicamente corretto”. Ma cos’è “politicamente corretto”? E’ ciò che pensa la maggioranza. Cos’è “politicamente scorretto”? E’ ciò che pensa una minoranza che non vuole adeguarsi al pensiero della maggioranza.

Questo è niente altro che conformismo. Ed il conformismo – anche quando viene esercitato con i riti mediatici – è mancanza di libertà vera.

Tutto questo ragionamento ha attinenza con il problema del mobbing? Assolutamente, si. Infatti, se ci pensate, cos’è la volontà aziendale di convincere tutti che l’unica scelta giusta da fare (una scrivania al posto di due) è quella che ha in mente lei, se non la manifestazione di un neo-conformismo? I lavoratori? Una minoranza culturale alla quale non resta altra scelta che la logica del gladiatore per saltare nel cerchio del conformismo aziendale (e sedersi – da solo – alla famosa scrivania).

Ecco, dunque: vedo in uno sforzo di analisi da compiere la necessità di recuperare fino in fondo questa lettura, del carattere politico e sociale del fenomeno, senza il quale, ripeto, ci sfugge l’azione di mano.

Io qui accolgo senza esitazione l’appello di Giorgio Benvenuto perché il sindacato chieda con forza una legislazione di sostegno per affrontare il problema del mobbing.

Naturalmente una legislazione di sostegno è tale se sostiene qualcosa. Io dico, ovviamente, che deve sostenere l’azione sociale e l’azione sindacale specie quella che si svolge sul luogo di lavoro. Occorre dunque un grande sforzo di riqualificazione dell’azione sindacale contrattuale da favorire anche con il sostegno legislativo. Per otto anni noi abbiamo dovuto dedicarci alla pratica della centralizzazione dei modelli contrattuali perché era necessario riportare il Paese nei parametri di Maastricht, ed abbiamo fatto bene a farlo. Ma ora è arrivato il momento in cui dobbiamo necessariamente restituire l’azione ai luoghi di lavoro perché è lì che si stanno manifestando le nuove contraddizioni nel rapporto fra capitale e lavoro. Non sembrino parole vecchie, mutuate da un antico gergo marxista, ma esiste il capitale ed esiste il lavoro. Ce lo dice D’Amato quando ci spiega che non c’è più bisogno di concertazione; anzi, che la concertazione deve essere rapidamente sostituita da un solido, sano rapporto conflittuale. Beh, noi dobbiamo sapere che c’è una fase nuova  al di là delle aspirazioni che i padroni possono avere a rinnovellare antiche pratiche di conflitto, dobbiamo misurare la nostra capacità di intervento sulla base della realtà così come ci si presenta e, dunque, pensare e considerare un aspetto come quello relativo al manifestarsi del fenomeno del mobbing come un aspetto delle nuove dimensioni del confronto e del conflitto al quale noi siamo chiamati sui luoghi di lavoro ed al quale dobbiamo rispondere. Per affrontare il mobbing noi dobbiamo avere centri di ascolto sul territorio: ma dobbiamo avere anche e forse soprattutto una capacità nuova di saper dare una funzione importante ai delegati che abbiamo sui luoghi di lavoro. Vedo dunque la necessità di due cose concrete e precise. La prima è quella di una vasta azione di formazione e di qualificazione dei nostri quadri, senza la quale non si va avanti. La seconda cosa è la necessità di rilanciare una prospettiva di unità con CGIL e CISL che sia intimamente connessa alla nuova fase che abbiamo di fronte.

L’unità sindacale basata sulla concertazione ha esaurito la sua spinta per il semplice fatto che si è esaurita la vitalità di quella politica. Non dobbiamo cedere alla tentazione della deriva antiunitaria. Dobbiamo saper guardare avanti; saper collocare la nuova elaborazione unitaria sul terreno che ci propone la trasformazione del lavoro. Nuove contraddizioni, nuovi bisogni, nuove forme di tutela, nuovi diritti da riconoscere e da rappresentare. Pensate all’esempio che ci proponeva Benvenuto: il diritto alla salute. Una volta questo diritto coincideva con il diritto al benessere fisico. Oggi invece comincia ad essere coniugato con un concetto del tutto nuovo: quello di “assenza di disagio”. Sappiamo tutto sul concetto di benessere fisico, ma quel tutto – ormai – non basta più. Ecco perché dobbiamo costruire una nuova concezione dei diritti sui quali lavorare, e lavorare tutti quanti insieme, Io sono convinto che avendo cominciato ad affrontare il problema del mobbing abbiamo già fatto un buon tratto di strada in questa direzione. Sono convinto che la nostra organizzazione, la UIL, insisterà e dovremo per forza di cose insistere perché questa strada e questo tema diventi uno degli elementi centrali della nostra strategia, ma dobbiamo avere la capacità di trasformare questo tema in un elemento capace di suscitare iniziativa politica, iniziativa sociale, aggregazione, nuove forme di unità, nuove forme di partecipazione perché queste sono le sfide che abbiamo di fronte a noi e le dobbiamo portare avanti con tutto quanto il nostro coraggio e tutta quanta la nostra determinazione.

Vi ringrazio.