Mobbing: un fenomeno da debellare
Convegno Nazionale UIL CA
Hotel Hermitage – Galatina
(Le)
16 giugno 2000
Intervento della d.ssa Marisa LIETI
Responsabile C.S.M. - TARANTO
T |
ra i vari ambiti che riguardano la mia professione il
lavoro è sempre stato affrontato, da me, con grande attenzione,consapevole del
ruolo protettivo e di integrazione sociale, rispetto alla malattia mentale, ma
anche di eventuale fattore di rischio, attraverso l’isolamento, l’emarginazione
ed infine l’espulsione della diversità e di chi non riesce a mantenere un certo
livello produttivo, tant’è che, vi posso assicurare, che per esempio, prima
ancora di parlare di mobbing sicuramente i primi a subire questo fenomeno erano
proprio i miei pazienti, nell’ambito del lavoro, tanto che noi facevamo molti
interventi per mantenere il posto di lavoro, per difenderli. Quindi è un
problema che conosco molto bene, però, in quel caso era fatto verso una persona
che, diciamo, era già malata, aveva una malattia “psichica” precedente.
Con l’avvento della società post-industriale nella
quale la forza lavoro diventa sempre meno importante e con la competizione
crescente ed anche sleale, l’ambiente di lavoro sta diventando sempre più
spesso un fattore di rischio. Cioè adesso, invece di essere un fattore
protettivo, rispetto alla malattia può essere un fattore di rischio, proprio
con quello che ci ha raccontato prima il dottor Ege, come avviene il mobbing.
Già agli inizi degli anni Ottanta, mentre lavoravo
presso l’Ospedale Psichiatrico di Collegno, per la prima volta nel mondo, la
Fiat usò la Cassa Integrazione come “ammortizzatore” sociale, cosicché per
molti anni vi furono più di cinquantamila cassaintegrati in tutta la provincia
di Torino.
In quell’occasione, in collaborazione con
l’Associazione per la Lotta contro le Malattie Mentali e le Confederazioni
Sindacali, condussi uno studio su “Cassa Integrazione e Disagio Psichico”,
riportando 150 casi di suicidio tra i cassaintegrati e numerosi casi di disagio
anche tra i familiari. I più colpiti risultarono essere coloro che, o avevano
investito psicologicamente molto sul lavoro, e sono anche i mobbizzati che
investono molto sul lavoro, o sul sindacato, per cui l’allontanamento dalla
fabbrica era più doloroso (vi furono numerosissimi casi di suicidio fra
delegati di fabbrica).
Questo accadeva negli anni ’80.
Fu uno studio che fece scalpore, i mass media se ne
occuparono a lungo e tra l’altro fu il primo studio al mondo fatto su questo
argomento: su suicidi provocati nei cassaintegrati.
Nel 1988, dopo cinque anni di lavoro a Taranto,
pubblicai uno studio intitolato “Cassa Integrazione – Prepensionamenti –
Licenziamenti a capitalizzazione. La via Tarantina alla Malattia Mentale”,nel
quale dimostravo che proprio chi stava in queste situazioni subiva fenomeni di
depressione ed anche i familiari ne erano colpiti. Anche quello studio ebbe
risalto sulla stampa locale.
Nel 1999, durante il Congresso Nazionale della
Società Italiana di Psichiatria, ho presentato la relazione su “Deprivazione da
lavoro e disagio psichico”, nella quale riferivo che la mancanza di lavoro,
beninteso non la mancanza di salario, ma il fatto di percepire uno stipendio
senza compiere alcun lavoro portava enormi disagi. Dal ’98 fino ad oggi ho
avviato un centro di ascolto per i mobbizzati presso il C.S.M. da me diretto,
con funzioni diagnostiche e terapeutiche, relazionando i numerosi convegni
nazionali su questo tema. Ora, poi parleremo della palazzina LAF, non vi spiego
cosa è il mobbing, perché mi sembra che sia stato ampiamente spiegato, e vi
leggo alcune mie considerazioni sul perché adesso si sta parlando tanto di
mobbing e perché attualmente il fenomeno sta scoppiando anche in Italia.
Lo sviluppo di questa patologia sociale alla fine
degli anni Ottanta, all’inizio della società postindustriale, nella quale i
mezzi tecnologici hanno determinato una minore necessità della forza lavoro-
uomo a tutti i livelli, fa pensare che il capitalismo si stia organizzando
attraverso le strategie mobbizzanti per far fronte alla necessità di ridurre i
costi aziendali
Il liberismo esasperato, la mondializzazione dei
servizi, la globalizzazione della concorrenza, la privatizzazione crescente
stanno facendo esplodere il fenomeno in
termini allarmanti, tanto che un milione e mezzo di italiani ne sono
interessati in prima persona e con essi, quattro milioni di familiari.
L’obiettivo di ridurre al minimo gli organici ha
diffuso la cultura dell’insicurezza e della paura, nella quale la violenza
psicologica cresce rigogliosa: quando
si teme di essere licenziati, ci si rassegna
spesso a subire ogni vessazione pur di conservare il posto di lavoro,
anche perché i più colpiti sono le persone dopo i 45 anni, per le quali è più
difficile trovare lavoro, nonché sappiamo quadri e dirigenti per i quali è
ancora più difficile.
Inoltre, la flessibilità crea desindacalizzazione e,
quando il sindacato è debole o inesistente, è più facile che si verifichino
casi di violenza morale, non solo dall’alto verso il basso cioè mobbing
verticale, ma anche tra colleghi di pari grado (mobbing orizzontale).
Gli psicologi del lavoro non sono tutti come Leymann,
molti lavorano per le aziende ed è pensabile che nei corsi di management, sia
compreso l’apprendimento delle tecniche di strategie mobbizzanti.
Ora vi parlerò, brevemente, del centro di ascolto che
ho organizzato presso il C.S.M. come centro diagnostico e terapeutico legato
anche alla vicenda della palazzina LAF e vi riporto anche, avendo già parlato
del mobbing le varie opinioni su da che cosa nasce questo fenomeno. Gli
psicanalisti vorrebbero ricondurre il fenomeno del mobbing a mere questioni
caratteriali, al rapporto vittima-carnefice ma è un’ipotesi estremamente
riduttiva: sbaglia chi pensa che le vittime siano predestinate,
psicologicamente deboli. Al contrario vengono generalmente colpite le persone
che emergono dal gruppo per le loro capacità e non si prestano, però alle
regole tacite di quest’ultimo che sappiamo essere molto più importanti delle
regole scritte. Tranne che in pochi casi non ho riscontrato disturbi
preesistenti nè mentali nè caratteriali. Gli effetti peggiori si hanno dal
determinarsi delle concause una cattiva organizzazione del lavoro genera
stress, necessità di capri espiatori nella quale si inseriscono i potenziali
mobber cioè i creatori di mobbing
sicuramente nella casistica da me raccolta, poi vi dirò i numeri dei
mobbizzati da me curati. Primi tra tutti i mobber hanno un disturbo del
carattere: la diagnosi a mio avviso è di disturbo di personalità. La
psicanalista francese Marie F. Herigoyen lo definisce: “ un narcisista
perverso, uno psicotico senza sintomi che gode nel far provare agli altri il
dolore che lui stesso ha dentro ma non è capace di riconoscere” e da tutte le
descrizioni fatte dai mobbizzati questa definizione mi sembra estremamente
azzeccata. Importante è, inoltre la logica del branco e l’asservimento al capo,
cioè la presenza di individui psicologicamente conformisti e subalterni nei
confronti di capi carismatici per cui si allineano subito sull’aggressività
contro qualcuno. Fra le vittime, i più colpiti, come ho detto già, come avevo
notato tra i suicidi di cassaintegrati sono i soggetti con un forte
investimento psicologico sul lavoro, che amano il proprio lavoro e vivono con
dolore una situazione di emarginazione.
Il centro di ascolto presso il C.S.M. da me diretto
con funzioni diagnostiche e terapeutiche è sorto gradualmente, subito dopo la
mia lettera-denuncia nel novembre del ’98 nella quale segnalavo un grave caso
di bossing esistente all’interno dell’Ilva, la famigerata palazzina LAF, che
raccoglieva 79 lavoratori, tutti impiegati e dirigenti, tra i quali avevo
riscontrato numerosi casi di disagio psichico ed alcuni dei quali avevano
tentato il suicidio sul posto di lavoro senza ricevere alcun soccorso. Per
alcuni mesi venni sommersa di richieste di dipendenti Ilva che volevano
rappresentarmi il loro caso, io limai drasticamente queste richieste,
limitandomi a prendere in carico esclusivamente i casi di pertinenza medica.
Devo dire però che, purtroppo, dato il clima di questa fabbrica il lavorarci è
diventato un fattore di rischi per la salute e non solo.
Prima ancora di addentrarmi sul caso specifico,
vorrei fornire alcune informazioni circa il significato della parola “bossing”
(che significa spadroneggiare, comandare). Questo termine viene usato in
Psicologia del lavoro da Binkmann nel 1995 ed indica un’azione compiuta
dall’Azienda stessa, o dalla direzione o dall’Amministrazione del personale nei
confronti di dipendenti in qualche modo divenuti scomodi. Il bossing è dunque
una strategia aziendale volta a ridurre il numero dei dipendenti, per ridurre i
costi del personale o per ringiovanirlo. L’azienda mette in atto delle
strategie persecutorie, che tendono a far sì che siano gli stessi lavoratori a
volersi dimettere per le umiliazioni e le demoralizzazioni che sono costretti a
subire, evitando in questa maniera il licenziamento, che creerebbe sicuramente
una conflittualità sindacale. In questo caso l’azienda realizza
intenzionalmente tutte le possibili situazioni che poi conducono all’uscita dal
posto di lavoro: trasferimenti, cambiamenti continui di mansioni (soprattutto
nocive ed inferiori), deresponsabilizzazioni o isolamento, ordini
contradditori.
Il bossing è la strategia aziendale che la famiglia
Riva ha messo in atto sin dall’acquisto dell’Ilva, nel marzo 1995, consistente
nell’interrompere le relazioni con le controparti, ignorando le istituzioni,
non rispettando accordi presi o già esistenti all’atto dell’acquisto,
contravvenendo a molte leggi dello stato (vi sono innumerevoli procedimenti
giudiziari a suo carico – già è stato condannato perché ha rovinato l’ambiente
a Taranto), pianificando il terrorismo psicologico sul posto di lavoro,
costringendo i lavoratori ad accettare “consigli”: cancellazione dal sindacato,
non adesione agli scioperi, lavori non in sicurezza, tanto che l’azienda Ilva
ha il primato europeo di morti ed incidenti sul lavoro.
In questo clima si inserisce la vicenda della
famigerata palazzina LAF, che ha visto rinchiusi in un reparto dimesso dell’Ilva di Taranto, un
laminatoio a freddo abbandonato, degradato, pieno di topi e scarafaggi, per più
di un anno e mezzo, 79 dipendenti, tutti impiegati e dirigenti: c’erano
avvocati, ingegneri, tenuti a non far niente con scrivanie e sedie sgangherate,
senza alcuno strumento di lavoro. Nel novembre 98, in seguito all’affluire al
CSM, da me diretto, di molti casi pubblicai una lettera aperta ai giornali e
feci una denuncia alla Magistratura.
Bisogna dire, però che una volta divenuta pubblica
questa vicenda - l’esistenza di questo
lager –l’opinione pubblica, i giornalisti che si sono avvicinati al caso,
attraverso la sua forma estrema hanno dato anche grande impulso a far venire
fuori il mobbing come problema molto importante, esistente in Italia, però è
stata quella lettera a farli uscire fuori dal chiuso perché loro sono stati un
anno e mezzo senza poter parlare con nessuno. Le richieste di visite di
mobbizzati sono affluite numerose anche dopo il primo convegno nazionale sul
mobbing del 24 aprile ’99 cui ha partecipato proprio il dottor Harald Ege. Si è
poi costituito un gruppo di auto-aiuto specifico che è uno spazio importante psicoterapico ed agisce come
fattore di protezione nel sostegno
reciproco, quindi ho organizzato un vero centro diagnostico e terapeutico. Tra
l’altro il 9 giugno abbiamo fatto un grande convegno a Taranto, sponsorizzato
dalla Asl stessa e dalle tre organizzazioni sindacali in cui il direttore
generale, il direttore sanitario, tutti quanti mi hanno dato un grande sostegno
e mi hanno dato via libera a segnalare i casi di mobbing in tutta la provincia
di Taranto e quindi, diciamo, Taranto da questo punto di vista è in avanti
rispetto a tutta l’Italia.
Inoltre il mobbizzato, riconoscendosi come tale,
rivolgendosi ad un servizio specifico e
trovando altre persone che condividono dinamiche di lavoro e familiari escono
dall’isolamento e superando il senso di colpa di essere responsabili loro
stessi di tutto il negativo che li circonda sanno dare un nome alla loro sofferenza
ed individuare i loro nemici, ma anche le persone che possono aiutarlo.
Il centro di ascolto C.S.M. Taranto 1 si è occupato
sino ad ora di 180 casi accertati di
mobbing, mentre una altro 25% si era rivolto in maniera inadeguata. Di questi
180 casi il 33% sono dipendenti Ilva,
tutti impiegati, dirigenti e tre operai che si sono addirittura
auto-licenziati. Per il restante 67%, il 20% è costituito da dipendenti della
Sanità pubblica e privata, il 20% da dipendenti di enti locali, un altro 16%
sono dipendenti bancari, il 15% sono del pubblico impiego, l’11% sono
giornalisti, il 5% sono dipendenti di grandi aziende a carattere nazionale tipo
Enel, Mediaset ecc. un altro 5% viene da ditte appaltatrici dell’arsenale, il
10% dal settore del terziario, il 2% dirigenti nell’ambito dell’agricoltura, il
resto sono singoli casi di piccole aziende locali di vario genere.
Poi, al contrario delle statistiche nazionali, la maggior parte cioè il 70% è costituito da uomini, mentre il 30% sono donne, mentre invece tutte le statistiche internazionali, anche quelle americane dicono che sono le donne maggiormente colpite. Io penso che questo sia perché, innanzitutto sono venuti molti dell’Ilva ed anche perché, nel meridione, le donne lavorano meno degli uomini. Per quanto riguarda il ruolo ricoperto anche questo, come nelle statistiche nazionali, il 70% è rappresentato da dirigenti, quadri ed impiegati però il 30% che è superiore alla media ha funzioni esecutive, cioè per esempio in Sanità ho avuto molti che avevano funzioni di commesse, di infermiere, anche molti medici, comunque e soprattutto i chirurghi sono colpiti da questa cosa.
Allora, a mio avviso il fatto che siano colpiti, in
maniera consistente i livelli esecutivi è dovuto ad un mercato del lavoro quasi
del tutto inesistente nel sud, a Taranto in particolare. Come in tutte le
statistiche il 25% presenta una sindrome post-traumatica da stress, la maggior
parte presenta una sindrome di disadattamento lavorativo nella quale però si
inseriscono anche, appunto depressioni molto gravi, con idee autosoppressive.
Due di essi che subiscono da più di
dieci anni una situazione di mobbing, uno addirittura dall’83, presentano
addirittura una sindrome psicotica, entrambi hanno una depressione grave con
allucinazioni uditive, che gli suggeriscono di suicidarsi e persino di fare il
cosiddetto suicidio allargato, cioè di togliersi la vita insieme a figli e
mogli. Entrambi sono in carico presso il C.S.M. dall’inizio della malattia, che
non era così grave, e loro stessi hanno capito di essere casi di mobbing, dopo
avermi sentita parlare in televisione. Li curavo già da prima, ma hanno detto:
“dottoressa, ma lei non si ricorda bene il nostro caso, noi abbiamo avuto
queste cose all’interno del lavoro”. Io gli ho rifatto la visita, il questionario
e tutto ed ho scoperto che erano mobbizzati, perché io stessa avevo dato poco
peso a quello che mi avevano detto nell’ambito del lavoro, ma non c’era questa
definizione. Però prima avevano malattie meno gravi, e solo da poco, su loro
richiesta e dopo aver ripercorso la loro storia con attenzione e con i
questionari li ho inseriti nella casistica come effetti estremi di malattie da
mobbing. In entrambi i casi non c’erano malattie preesistenti alla persecuzione
subita nell’ambito del lavoro e comunque, adeguatamente curati e sostenuti
attualmente stanno molto meglio, proprio perché frequentano il gruppo di
auto-aiuto ed hanno trovato solidarietà tra loro e dagli operatori.
Il mobbing comporta anche malattie somatiche quali
l’ipertensione che nei miei pazienti è presente nel 30%, l’artrite, l’ulcera,
dermatite, persino tumore perché lo stress riduce le difese auto-immunitarie.
Il mobbing, anche se veniva chiamato diversamente, si
è sempre fatto verso i malati di mente, nel lavoro e non solo. Ecco perché è
importante battersi comunque contro ogni forma di emarginazione che crea
malattia. Sia il mobbing che le malattie mentali, curiosamente, si ritrovano
solo nelle civiltà occidentali, dove il lavoro ed i diritti sono tutelati per
legge. Nelle società, diciamo, non occidentali non esiste né il mobbing e
neanche la malattia mentale. E’ evidente che lo scarso livello etico di
un’azienda, per cui la dignità umana non ha valore come filosofia aziendale,
acuisce fenomeni come quelli appena descritti. Poi ho fatto anche una ricerca
storica e mitologica ed ho scoperto così che il primo caso di mobbing nella
letteratura, nella mitologia greca è quello del dio Ade che era il dio degli
inferi, che viveva appunto sottoterra. Allora il dio Ade una volta, poiché voleva uscire dalla sua situazione di
emarginazione, rapì la figlia più bella della dea terra, Demetra, che era
Persefone e se la portò giù. Allora la madre, siccome le aveva rapito la
figlia, per rimandarlo nella sua situazione, perché non lo accettava come genero,
disse che, se non le avesse riportato la figlia, nessuno avrebbe avuto più le
messi, non avrebbe più mangiato ecc.. ecc.. Cosicché il povero Ade riprese
Persefone e gliela portò, e poi gli concessero di vederla, da lontano, una
volta ogni tanto. E quindi ho fatto anche questa ricerca, come il primo caso di
mobbing che c’è nella storia dell’umanità.
Adesso cerchiamo di capire cosa succede a livello
della persona che subisce mobbing e bossing nella mente, come si stabilisce la
malattia.
Le problematiche.
Crisi esistenziale: interessa l’individuo e la
famiglia.
C’è una perdita di ruolo come lavoratore, in quanto
il lavoro è la principale fonte di realizzazione dell’individuo ed è
fondamentale elemento di autonomia personale e di gratificazione.
Sconvolgimento della propria esistenza, nel senso che
il lavoro era vissuto come unico modo di esistere, di essere cioè padre e
marito. Viene a mancare la possibilità di
proiettarsi nel futuro, che è elemento di “salute” nell’esistenza di
tutti. C’è perdita dell’autostima e insorge senso di colpa, in quanto
l’individuo si convince di essere la causa di quello che è successo.
Crisi relazionale: a livello familiare viene ad
essere sconvolto il precedente equilibrio affettivo, per cui possono emergere
precedenti situazioni conflittuali latenti. La famiglia diviene unico spazio di scarico delle frustrazioni.
L’individuo perde potere contrattuale all’interno della famiglia. La famiglia
stessa si convince dell’incapacità del proprio congiunto, attribuendogli la
totale responsabilità del fallimento sul lavoro e nella vita.
A livello sociale: spesso perdere lavoro equivale a
perdere le uniche possibilità di rapporto extrafamiliare di cui l’individuo
dispone: questo vale sia per gli uomini che per le donne. Inoltre, i colleghi
di lavoro, i familiari, tendono a pensare che le vittime siano loro i
responsabili del loro destino.
Crisi economica: un reddito sufficiente a rispondere
alle necessità economiche di famiglia e la stabilità, la sicurezza di questo
reddito, la possibilità di migliorarlo ulteriormente, sono fattori di salute
mentale molto importanti. Esiste invece nel mobbing e nel bossing la
disperazione di non poter mutare la propria condizione. A tutte queste
dinamiche del mobbing e del bossing si aggiunge l’impossibilità di difendersi,
che all’inizio crea un sentimento di rabbia, seguita da frustrazione e perdita
di autostima e fiducia nelle proprie capacità, proprio perché la rabbia viene
rivolta contro se stessi.
Il lavoro, come si può notare, risulta fattore di
integrazione social e di insopprimibile fonte di identità, oltre che misura
delle diversità sociali e delle aspettative individuali, è un fattore basilare
nell’identità della persona adulta, costituisce infatti l’elemento principale
della propria auto-realizzazione per cui nel mobbing e nel bossing si possono
ledere le fondamenta della personalità di un uomo creando danni permanenti,
tanto che negli altri paesi europei il mobbing è riconosciuto come malattia
professionale.
La perdita del lavoro in molti casi deriva da una
storia lacerante.
Ho voluto portare un contributo, come spunto di
riflessione per fenomeni, che nei prossimi anni 2000 possono diventare
particolarmente significativi ed
allarmanti.
Grazie.