Mobbing: un fenomeno da debellare
Convegno
Nazionale UIL CA
Hotel
Hermitage – Galatina (le)
16 giugno 2000
Intervento del Prof.
Marcello STRAZZERI
Docente di Sociologia della Conoscenza
Università di Lecce
C |
hiedo scusa anticipatamente se intervenendo in questa fase del Convegno alcune cose sono state già dette. Io correrò inevitabilmente il rischio di qualche ripetizione. Comunque ho preparato un intervento scritto per cercare di contenermi nei limiti di tollerabilità che ogni intervento necessariamente comporta.
La semantica del termine mobbing deriva, come è stato detto, da una branca della biologia che studia il comportamento animale. Nella prospettiva che ne dà Konrad Lorenz, da più parti ritenuto il fondatore di tale scienza, il termine mobbing – derivato dall’inglese “to mob” – significa aggredire. Esso si riferisce in modo specifico al comportamento di alcune specie di uccelli nei confronti di altre specie, che si vogliono cacciare dal gruppo. E’ allo psicologo tedesco Heinz Leyman, tuttavia, che si deve l’estensione semantica del termine, alla logica di emarginazione ed esclusione che può determinarsi nei luoghi di lavoro. Talvolta, come si vedrà, consapevolmente, tal’ altra inconsapevolmente nei confronti di chi si vorrebbe escludere, allontanare, costringere ad andarsene.
Non mi soffermerò, per ovvio
difetto di specifica competenza, sulle conseguenze del mobbing nella sfera neuropsichiartica, peraltro illustrate da
Leymann in un suo libro del 1986. Richiamerò, pertanto, solo i risultati della
sua ricerca su persone che hanno avuto la ventura di rimanere esposti ad un
comportamento ostile, protratto nel tempo, di superiori e colleghi nel proprio
ambiente di lavoro. Continuità e durata, infatti, come rileva il professor Ege,
sono un requisito essenziale. Ecco, dunque, i risultati dell’indagine di
Leyman, in un Paese, la Svezia, in cui le condizioni di lavoro sono, peraltro,
tutelate da una legislazione di settore tra le più avanzate del mondo. Il 3,3%
su una popolazione attiva di 4,4 milioni di persone, soffriva o aveva sofferto
di persecuzioni da parte di superiori o colleghi di lavoro per un periodo di 15
mesi. I risultati della ricerca di
Leyman si sono diffusi rapidamente, suscitando interesse notevole nel mondo
scientifico, nelle Organizzazioni dei lavoratori, nel mondo della Sanità, ma
non riuscendo tuttora a conquistare un compiuto riconoscimento, oltre che
clinico, legislativo e, per certi aspetti, penale. La maggiore conoscenza
dell’estensione del fenomeno consente oggi di rendere pubblici i seguenti dati
ufficiali. Secondo l’Unione Europea l’8,1 dei lavoratori, sulla base di un
indagine a campione, ha subito pratiche di mobbizzazione per un totale di 12
milioni di persone: 16,3 in Gran Bretagna, 9,1 in Svezia, 7,3 in Germania, 4,2
in Italia. La situazione apparentemente favorevole dei lavoratori italiani non
è in realtà attendibile. E’ ragionevole ipotizzare una percentuale notevolmente
più alta, il sottodimensionamento si spiega con il fatto che il fenomeno in
Italia non è ancora adeguatamente censito e conosciuto. Harald Ege, in
fondatore dell’ associazione “Prima”, cui va riconosciuto il merito indiscusso
di aver introdotto lo studio di tale patologia nel nostro Paese, ha descritto
in modo efficace la situazione italiana, spiegandola sia in termini di
sottovalutazione che di sottostima qualitativa e statistica del problema. Dice
Harald Ege, mi si consenta la citazione, “a
differenza dei paesi nordici in Italia non c’è ancora una cultura in grado di
identificare in modo chiaro questo fenomeno, cattiverie, pettegolezzi, vere e
proprie malvagità di capi e colleghi sono ritenute molte volte regole del gioco
e sdrammatizzate da parenti e amici quando vengono raccontate: L’individuo in
questo modo si ribella quando è ormai troppo tardi e il danno è fatto”. Questo
mancato riconoscimento dei disturbi psicosomatici provocati dal mobbing, produce una situazione
paradossale in cui la stessa vittima fatica stabilire una relazione tra il suo
malessere generale – mal di testa, difficoltà di digestione, insonnia
improvvisa – e la sequenza di rimproveri, maldicenze, diffidenze perpetrate ai
suoi danni dai capi o, come si vedrà, dai suoi stessi colleghi di lavoro.
Questo dato credo vada messo anche in evidenza, perché non sono solo i capi, ma
è anche l’ambiente complessivo a determinare la cornice entro cui il mobbing si determina.
Il mobbing, tuttavia, non designa i normali conflitti di lavoro –
chiariamo questo – e nemmeno il normale carico di pettegolezzo e pregiudizio e
maldicenza più o meno presenti in tutti i luoghi di lavoro. Dire che tutto è mobbing significa dire che il mobbing non c’è, bisogna individuarlo
come una vera e propria, talora consapevole, strategia di distruzione di un
collaboratore o di una collaboratrice al cui obiettivo vengono finalizzate
allusioni subdole, calunnie, umiliazioni gratuite, minacce più o meno velate,
quotidiane vessazioni, molestie sessuali. Si vuol dire che, al di là di una
interpretazione meramente psicologistica ed individualistica, le reali
situazioni di mobbing si sviluppano
solo in un determinato riconoscibile clima ed ambiente di lavoro. E’
all’interno di tale cornice che il mobbing
si istituisce, organizza, provoca la nascita dei suoi killer: i mobbers.
Ma come si manifesta il mobbing? Quali sono gli indicatori
percepibili del suo manifestarsi? In altri termini, la concreta fenomenologia
del suo operare. Sulla base di circa 300 interviste Leymann ha individuato tre
campi in cui il mobbing si manifesta:
-
la
comunicazione, l’assenza di dialogo tra superiore e dipendente, tra colleghi
stessi;
-
la
reputazione, dubbi sullo stile di vita, sul comportamento, sulla onestà di
colui che è destinato a diventare vittima dell’azione di mobbizzazione;
-
l’attribuzione
di compiti inadeguati, o perché inferiori alle mansioni – come si dice –
istituzionali da svolgere, o anche superiori per metterlo in condizioni di non
potervi fare fronte.
All’interno di questi tre
campi, ripeto, comunicazione, reputazione, attribuzione di compiti, è possibile
individuare cinque gruppi all’interno dei quali, poi, Leyman ha individuato
quarantacinque azioni che, però, sarebbe lungo e improduttivo elencare: a)
l’impossibilità di comunicare la propria situazione, la sfera della
comunicazione – che ho già detto – cioè la negazione del dialogo, il superiore
che non vi ascolta; la limitazione delle relazioni sociali, l’isolamento del
luogo di lavoro – colleghi che non vi parlano, che stanno zitti se voi
intervenite mentre stanno chiacchierando; b) l’azione di deterioramento della
reputazione, allusioni malevole sul proprio stile di vita, c) azioni volte ad
attaccare la qualità della professionalità; d) azioni tese a fiaccare la
resistenza fisica e la stessa salute attraverso utilizzazioni improprie del
dipendente rispetto a quelle che la propria condizione di salute gli
consentirebbe di fare. Leyman ha anche individuato all’interno della
classificazione proposta, una vera e propria escalation, articolata in quattro fasi. Nella prima fase i primi
attacchi di mobbing progressivamente
si intensificano, la vittima viene in questa fase individuata come persona su
cui cominciare a focalizzare l’attacco. Nella seconda fase appaiono vessazioni
di vario genere e soprattutto un progressivo isolamento della persona, sulla
cui personalità, stile di vita, comportamento, emergono voci che il soggetto
interessato non riesce a controllare, sino al dubbio che egli stesso introietta
sulla sua salute psichica. Nella terza fase del processo, quando esso è
visibile e quindi molti danni sono stati prodotti, iniziano gli abusi di
potere, le illegalità, con l’emergenza del caso come problema di cui la
struttura dirigenziale si deve occupare, aggirando le norme di diritto del
lavoro, spesso con garanzia certa di impunità. In questa fase non è più
possibile alcuna soluzione del conflitto , negoziazione, intesa. C’è un capro
espiatorio, ormai, su cui scaricare le contingenti disfunzioni tipiche di ogni
ambiente di lavoro. Certo, si tratta, il mio, di uno schema esplicativo troppo
lineare, per certi aspetti eccessivamente didascalico, ma utile per
identificare la nascita e l’emergere del fenomeno mobbing, prima che i suoi
devastanti effetti si manifestino all’interno di una singolare inversione
logica e cronologica, persino tautologica, che trasforma l’effetto (la
depressione fisica e psichica prodotta dal mobbing),
in causa (le disfunzioni sono generate dalla precarietà fisica prodotta dal mobbing). Questa la tautologia. E’ così che il mobbing si dissimula, occulta, nelle pieghe delle relazioni umane
di lavoro non risolte, non riconosciute come causa scatenante di un processo
che ormai si stima possa costituire l 15% delle cause di suicidi nei paesi
industriali avanzati o post-industriali che dir si voglia.
Ma quali soggetti o persone
pongono in essere strategie ed azioni di mobbing?
Nella categoria dei soggetti collettivi possiamo certamente inserire le
strategie poste in essere da gruppi aziendali, prevalentemente, ma non solo
privati. In questo caso, cu sui si dovrebbe richiamare di più l’attenzione della Magistratura del
Lavoro, ma anche quella penale, il mobbing
si trasforma in politica aziendale, violatrice di fondamentali diritti umani,
quali l’integrità psicofisica del lavoratore. Il caso Taranto, su cui
finalmente la Tv di Stato ha realizzato un’inchiesta, è in tal senso sintomatico
di pratiche di mobbizzazione
finalizzate a ridurre l’esubero di manodopera, in violazione di precise norme
contrattuali sottoscritte nel passaggio
dall’Iri al privato. Purtroppo, come meglio si specificherà in seguito, è
totalmente carente, in Italia, una legislazione anti-mobbing. Per cui occorre che la personale convinzione dei Giudici –
quando c’è - applichi in modo estensivo l’articolo 2087 del Codice Civile e,
nel caso, l’art. 182 del Codice Penale. Ma, com’è noto, nel penale la creatività è molto meno possibile
possa essere utilizzata e nemmeno l’analogia,
al fine di poter applicare il Decreto Legge 626/94. Deriva da qui
l’ambiguità di una situazione giuridicamente indefinita e, dunque, inficiata da
una sostanziale incertezza del diritto.
Fortunatamente non mancano
qualificate proposte di legge, come quella presentata dall’On.le Benvenuto e
dall’On.le Pistone ed altri, la cui approvazione, tuttavia, nell’inquietante
clima di attacco ai diritti dei lavoratori che stiamo vivendo, rischia di essere
molto problematica, se non interviene la spinta propulsiva di un vigoroso
movimento di opinione pubblica alla cui formazione questo Convegno,
meritoriamente organizzato dalla UIL della Provincia di Lecce, sezione Bancari,
vuole contribuire. A tal fine, sul piano conoscitivo, mi sembra di grande
utilità la fondamentale distinzione tra mobbing
verticale e mobbing orizzontale. Nel
primo caso il mobbing viene
esercitato, come si rilevava, nel quadro di una perversa strategia aziendale da
parte di manager e dirigenti, soprattutto in caso di fusioni e
ristrutturazioni. Vorrei, però, aggiungere che ristrutturazioni e
riconversioni, indispensabili se si vuol tenere il passo dell’innovazione,
debbono prevedere nel contratto non
solo misure anti-mobbing, ma anche
adeguati livelli di formazione, per poter attuare le riconversioni. Perché se
il datore di lavoro, oppure l’Amministrazione Pubblica, si trova di fronte
all’impossibilità del lavoratore cinquantenne di impratichirsi degli elementi
di alfabetizzazione informatica e quell’ufficio ha bisogno di un minimo di
informatizzazione e non c’è la formazione, la ristrutturazione, la
riconversione pur necessaria, diventa
esiziale, produttrice di effetti devastanti e distruttivi, per il lavoratore.
Ugualmente diffusa - anche se spesso non consapevolmente esercitato – il mobbing orizzontale, quello posto in
essere tra colleghi di pari grado. In tal caso, a fini conoscitivi ed
interpretativi, può essere utile l’approccio offerto dalla teoria dei sistemi.
Il sistema, applicato alla teoria dell’organizzazione tende – come è noto – per
un verso a selezionare autoreferenzialmente dal suo ambiente ciò che è
funzionale alla sua autopoiesi, vale a dire alle sue esigenze di riproduzione,
per alto verso, il sistema, tende ad espellere ciò che nell’ambiente in cui
egli opera, cioè l’ambiente organizzativo, è disfunzionale alla sua
riproduzione. In altre parole, ogni sistema organizzativo ha un suo codice di
referenza, in base al quale si struttura, differenzia, ristruttura, selezionando,
ricombinando espungendo chi non è compatibile con il suo codice di referenza.
E’ chiaro che nel codice di referenza ci sono tutte le esigenze di
funzionamento del sistema. Se questo ultimo, il codice di referenza, è sempre e
comunque il massimo profitto di impresa e se il massimo profitto non è
raggiungibile – come si dovrebbe – con l’innovazione, la conquista di nuovi
mercati, ecc., la competitività aziendale sarà perseguita attraverso pratiche mobbizzanti, intese quali strumenti di
azione per selezionare ed espellere, prescindendo da ogni considerazione per i
mondi vitali dei lavoratori, per le loro esigenze di riproduzione simbolica,
umana, soggettiva. Il fatto è che il codice sistemico non è sintonizzato su
questa lunghezza d’onda, e considera le esigenze dei soggetti in via di
mobbizzazione, come elementi perturbanti di uno sviluppo autoriferito che per
sua natura prescinde da diritti, salute, benessere psico-fisico. All’interno di
questo quadro teorico il mobbing
viene praticato non solo come male necessario, ma come precisa strategia di
gestione aziendale.
Il dottor Ege, illustre
relatore di questo Convegno, così descrive in un suo libro (Il Mobbing in Italia, Bologna 1997), il terrorismo psicologico posto in essere dai “bossing”, come egli li chiama. Un giorno
spariscono le scrivanie, e gli impiegati sono costretti a lavorare in due sullo
stesso tavolo, non c’è metodo migliore per creare conflitti che costringere ad
una convivenza eccessivamente ravvicinata. Un’altra strategia molto diffusa è
quella di far circolare una lista nera con i nomi delle persone non
indispensabili – inutile dire che la lista nera non deve mai sembrare ufficiale
– ma sempre segreta. Altro requisito strategico fondamentale, le liste nere
dovrebbero essere più d’una e, in ognuna, comparire combinazioni di nomi
diversi. Voi capite l’effetto terroristico dal punto di vista psicologico di
una lettera, più o meno anonima, che non è ufficiale, ma che sembra quasi
ufficiale, in cui sono presenti i
dipendenti ritenuti non indispensabili. Tralascio un altro esempio, pure citato
da Ege, su come vengono invece emarginati i dirigenti, i quadri, i manager a cui improvvisamente si fa
mancare il cellulare, la macchina di servizio, la segretaria, o li si costringe
a fare la fotocopia da soli, a rispondere da solo alle telefonate. Il manager
regge per un poco e poi se ne va, senza poter pretendere ciò che legalmente, in
termini retributivi, gli compete.
Ma vediamo qualche altro
esempio di mobbing. Ne cito uno solo, e cito anche la fonte: sito internet
www.diario.it. Il caso è riportato da Marina Morpurgo: Franca, cinquant’anni,
dipendente del Comune di Perugia, che dopo aver gestito per dieci anni il suo
ufficio si è trovata a dover condividere la responsabilità dell’ufficio con un
giovane collega vincitore di concorso, ed è stata fatta fuori. Cosa dice
Franca, cinquant’anni? “Come prima
reazione sono ingrassata a dismisura, quando ho chiesto un trasferimento
interno gli altri hanno fatto quadrato, calunniandomi, mettendo addirittura in
giro volantini anonimi contro di me. Ho avuto crisi isteriche tremende davanti
a tutti con urla e pianti. Ora mi hanno assegnato un nuovo incarico, nuovo in
teoria, ma, di fatto, lavoro non ne vedo. Non ho una stanza, nessuno con cui
parlare, una cosa terribile. E’ la morte civile. Di notte sogno l’ufficio e
così non mi sopportano più. Caso tipico di intreccio tra mobbing verticale – il trasferimento
forse artato per favorire il giovane entrato – e orizzontale, cioè i colleghi che concorrono a dare forza al mobbing verticale.
Ma quali sono gli indicatori
psico-somatici del mobbing? Dicono
gli specialisti del settore che
comincia con vomiti, incubi, svenimenti, tremori, aggressività. Purtroppo, in
Italia il fenomeno è pressoché ignorato nel Servizio Sanitario Nazionale, salvo
eccezioni, come quella rappresentata a Bologna dal dr. Ege (ma non siamo nel
Servizio Sanitario Nazionale), che ha fondato una Associazione contro il mobbing, la quale in termini di ricerca, di prevenzione, assistenza legale e
materiale. Per il resto quasi nulla. Alla Confindustria ignorano il problema,
non ne parlano, i sindacati cominciano a prendere atto, solo ora, con crescente
intensità, della sua rilevanza.
Afferma il professor Renato
Gilioli, della Clinica di Medicina Preventiva e del Lavoro di Milano: “il mobbing da noi è sempre esistito, ma non
è stato mai studiato, forse perchè considerato intrinseco ai rapporti umani, se
vuoi lavorare devi rassegnarti o subire certe cose”. Quanto e come la
sperequazione tra domanda ed offerta di lavoro esasperi tale situazione lo ha
rilevato molto bene il dottor Ege, facendo il rapporto tra paesi ad alto o a
basso tasso di disoccupazione: più c’è disoccupazione, più il mobbing è facilitato. Mi pare che sia
ovvio e, quindi, da noi il mobbing è,
probabilmente, molto più presente di quanto non sia censito. Bisogna poi vedere
se noi abbiamo gli strumenti per individuarlo: teorici, scientifici,
concettuali, giuridici.
Che fare? Innanzitutto
approvare rapidamente una legge anti-mobbing, diagnosticare, con certezza
scientifica, infine, censire le situazioni di mobbing, avendo l’accortezza di non vedere mobbing dove mobbing
non c’è. Non vorrei che si ingenerasse una sorta di psicosi mobbizzante per cui qualsiasi conflitto
di lavoro, qualsiasi dissapore nell’ufficio, quasi come profezia che si
autoavvera, possa determinare situazioni di mobbing.
Occorre, dunque, sensibilizzare l’opinione pubblica, dando tutti gli elementi
informativi necessari, attivare con il concorso delle Organizzazioni Sindacali
– ma non solo – sportelli anti-mobbing
e telefoni verdi, rendere visibile il problema ai dipartimenti competenti delle
AUSL, attraverso l’acquisizione di specifiche competenze specialistiche,
sensibilizzare la Magistratura del Lavoro ad applicare la Legislazione vigente,
la normativa di riferimento citata, ma, soprattutto, occorre, sul piano
culturale, una rigorosa difesa dei diritti dei lavoratori, che non sono solo di
natura economica e sociale, contro ogni totalizzante pretesa al pensiero unico
dell’economia, del produttivismo, del mercato, applicando, in concreto, la
definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: un
completo stato di benessere fisico, psichico, sociale.